Sunday, December 04, 2005
Tu ospiti il luogo (e il volto che e' luogo)

remo salvadori, l'osservatore non l'oggetto osservato / The observer not the object observed
Venezia, 18 marzo-8 maggio 2005
Il nostro nocciolo piu' interno e' granaio e terra in cui cio' che l’occhio ha veduto e meditato puo' trovare - o non trovare - luogo per radici, e germoglio.
Trovare un luogo per cio' che si vede e' ospitare.
Ospitare e' procedere silenzioso e fiducioso.
Per lo piu' l’opera si annuncia in silenzio, nella quiete. Talvolta, con sommovimenti interni.
Il vero evento e' l’incontro, e' nell’intimita' dell’incontro volto a volto: io e l’opera, il nostro volto e quello dell’altro.
L’opera e' frutto, cioe' fruttifica riversando, seminando.
L’attenzione ospita il seme, nell’intimo silenzio dell’accadere e dell’attendere.
Ospitare l’opera e' ospitare parte del mondo, ospitare frutti, ospitare volti.
(Sentire che ogni volta che apri gli occhi, che dividi le palpebre separandole un poco e ogni volta che separi le labbra aprendo la bocca, ospiti luce e parola, e luce e parola ti ospitano.)
Il paesaggio e' ospite nei nostri occhi.
Il paesaggio ha radici negli occhi tanto quanto gli occhi nostri in lui.
Questo essere qui, parlare, ascoltare, e' un mutuo ospitare.
“Hospes” e' funzione biunivoca.
Tu ospiti il luogo (e il volto che e' luogo) tanto quanto esso ospita te.
Ti ospita il luogo nella misura che lui sia tuo ospite.
A San Quirico come altrove lungo la via Francigena si costrui' uno Spedale, un Ospitale.
Che l’opera che nasce sia a sua volta ospitale.
Ospitare come permettere radicamento.
L’occhio stesso mette radici.
Le radici si danno a partire dall’interno della retina, dall’interno della coclea. Di continuo e di nuovo.
Le radici condizionano la durata del germoglio, la possibilita' di frutto.
Perche' radici vi siano bisogna vederle, sentirle, coltivarle, dar loro una forma.
In fondo non c’e' ereditarietà nelle radici. Cultura e' formazione dell’attenzione, formazione continua, ridialogare incessante con le cose acquisite e le nuove. Tutto e' accogliere, ascoltare, differenziare, domandare, tacere. Allontanare e avvicinare. Ospitare, appunto.
Abbiamo segni:
il luogo che e' un segno, anzi pluralita' di segni
i volti che abitano il luogo, segni
i volti che via a via, momento a momento, abiteranno il luogo, essi pure segni
gli oggetti segni
la memoria.
Tutto potenziale radice.
Ospitare segni.
Il processo verso la forma e' (forse) procedere interminabile.
Nessuna parte della superficie di una figura puo' essere creata se non dal nocciolo piu' interno.
Nessuna parte fertile di una esperienza può essere creata se non dal nostro nocciolo piu' interno.
Questo ospitare e' un riesaminare e riesaminarsi, dialogare, oscillare. Inspirare, espirare. Fuori dentro fuori. Vedersi-vedere.
Non e' arrivare la questione. Ma sapere da ogni punto partire, incamminarsi.
Da ogni vedere un riesame, un vacillare. Non altrimenti, forse, si danno tremore, bellezza.
E’ anche questo continuo vacillare tra labirinti di calli e campielli, ponti e vie di acqua che ci fa tanto amare Venezia. Non tanto per sognare e' Venezia, ne' per vivere alcun sogno di vincitori, questa citta' e' per accompagnarci sull’orlo del nostro essere profondo, per incontrarci fin nei meandri, per farci oscillare vicino alla crisi in modo da rimettere mano al vissuto, al presente. Quello e' il momento di Venezia per noi, su noi. Venezia tra fissita' e movimento ci offre il nostro doppio, l’incontro con l’intimita' della nostra vita e la sua fertile potenza.
Gianluca Poldi, Dal nocciolo piu' interno
Val d’Orcia - Venezia 2005
tartito da ---gallizio
all'epoca incamminata verso il denocciolamento
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