Saturday, December 24, 2005
disrotolamenti simbolici

La pittura industriale era proprio un’idea di non-interruzione e poi invece di montaggio in qualche modo casuale. Montaggio che era uno smontaggio, perche' ovviamente un pezzo di questa cosa sarebbe andato di qua, un pezzo di la', perso proprio come una serie di reliquie disperse senza piu' intero, ma nello stesso tempo come se l’intero fosse l’unica cosa che mal sarebbe stata piu' vista e che quindi sarebbe rimasta come nostalgia o al contrario (ma e' esattamente la stessa cosa) come se solo il fatto di disperdersi permettesse il pensarsi di un intero; anche perche' il rotolo, finché e' chiuso non e' visibile, oppure e' visibile da lontanissimo, dall’occhio di un gigante, o da lontano se steso forse su una collina, in un’ulteriore performance.
Allora questo rotolo, chiuso o aperto che sia, spezzettato poi sforbiciato, tagliato, dato in giro, venduto o regalato a pezzi, mi riproponeva la stessa scissione che provo di fronte a quasi tutti i film su un artista - sull’opera di un artista, sull’artista all’opera - e poi in generale su questo dover/voler tagliare e montare: naturalmente per proporre più voci, per rendere piu' completo il lavoro, il quadro, il ritratto. Il dover continuamente tagliare, sforbiciare, e' cosa che trovo ancora più terribile, in un certo senso, in un film che non fa questa operazione in quanto ipoteticamente obbligato dalle necessità di una finzione di una sceneggiatura, ma la costruisce proprio come una scultura, per tagli successivi, per sottrazioni successive, cercando come qui di costruire un discorso con una serie di nessi, con scarti, con salti ma poi con recuperi, e tra una voce, un’assonanza, una parola e un’altra.
enrico ghezzi, Pensare a Pinot Gallizio ...
tartito da ---ch'letre gallizio
ai tempi delle densita' non specificanti
permalink