Friday, May 06, 2005
[Redenta Tiria] 1 - oltre la voce
Pascale Prunizza
Prendemmo per una salita chiusa da cespugli e muri a secco e, voltando a destra verso la
collina di Tronos, costeggiammo per un lungo tratto il fiume Sappaiu. Aveva
smesso di nevischiare e il sole faceva brillare come stelle di prata le foglie
dell’agrifoglio.
«Preparati a non svenire e tieniti le palle strette, che altrimenti te le ritrovi in gola! ».
L’emozione e l’effetto dell’acquavite si facevano sentire. Colavo sudore e ogni tanto una bestia con le zampe fredde mi camminava su e giu’ per la schiena.
«Ma questa sorpresa, cosa di buono e’, Pasca?» domandai.
Lui manco rispose. Continuava a tirare avanti, col muso puntato al sole e il bidoncino del latte a tracolla, che perdeva dal tappo di sughero, colandogli sul panno della giacca.
Quando arrivammo vicini a un recinto, si butto’ in ginocchio per terra e, a gesti secchi, mi invito’ a fare altrettanto. Si porto’ la mano a forbice sulla bocca e mimo’ un taglio. Capii al volo che da quel momento non dovevo piu’ fiatare.
Quattro stalloni selvaggi, legati ai piedi con catene di ferro, spingevano col muso contro un cancelletto di tavole inchiodate. Nitrivano con indolenza, sputando in aria un vapore
schiumoso. Avevano il manto nero lucido che mandava riflessi azzurrini.
«Tu non muoverti! » disse a voce bassa.
Entro’ nel recinto arrampicandosi su un perastro e, scavalcando il muretto, si avvicino’ lentamente ai cavalli. Inizio’ a carezzargli la criniera e la schiena, poi, con una piccola chiave arrugginita,
a uno a uno, li libero’ dalle catene. Apri’ il cancelletto e, salutandoli con una manata sulla groppa, li lascio’ correre verso la pianura.
«Via! Via! Tru’u’ su ca’! Via, che voi siete nati per galoppare! ».
A Dineddu Podargu, il proprietario delle bestie, quello scherzo Pascale glielo faceva ogni tanto.
Non poteva arrampanarlo, perche’ frustava a sangue gli stalloni e li teneva sempre chiusi dentro il recinto.
« Quello e’ un cane! » mi disse. « Uno che tratta cosi’ gli animali dovrebbe mangiare merda e bere solo piscio!».
Tornammo a casa con le tasche gonfie di bacche rosse di corbezzolo, mangiando a mano piena.
Prima di salutarmi, mi guardo’ in faccia e domando’:
«Batti! Avevi mai visto cavalli cosi’ belli?».
Pascale Prunizza, quando parlava di cavalli e raccontava i sogni che faceva sua nonna, spalancava gli occhi come castagne pronte a uscire dal riccio. Il nonno lo aveva perso in guerra e, da allora, tzia Mintonia Sulapis vedeva nel sonno solo guerrieri che combattevano contro mostri a tre teste, saccheggi di citta’ e carneficine che finivano sempre all’alba, quando le nuore la svegliavano per il caffellatte.
Fino all’ora di pranzo continuava a sentire il fragore delle sciabole che s’incrociavano in battaglia, lo scalpitio dei cavalli che avanzavano, il crepitare dell’artiglieria che oscurava il ciclo con nuvole di polvere da sparo.
«A li senti, Pascale? Arrivano! Vai a nasconderti nel fienile che se ti trovano ti tagliano la testa! ».
Pascale, che non temeva ne’ i morti ne’ i vivi, tirava fuori la leppa e rispondeva:
«Non temete, manna, che se arrivano gia’ vi difendo io!».
Una volta, a fine primavera, mannai Mintonia gli racconto’ un sogno strano, che gli mise davvero paura e lo inquieto’ per diverso tempo.
Sogno’ un toro porporino, con corna lunghe di metallo e unghie affilate come artigli. Era uscito da una grande urna di bronzo e per tredici mesi aveva vagato per le campagne di Abacrasta, in cerca dei cavalli di Dineddu Podargu. Quando li trovo’ li sventro’ e, prima di sparire, si mangio’ le interiora. Lascio’ le bestie a terra nel recinto, con la polpa pronta per le vespe e le mosche.
Alla fine del sogno un bambino vestito di bianco come un chierichetto, con il turibolo in mano che mandava profumo d’incenso bruciato, correva sopra il muro a secco del recinto gridando:
« Perche’? Perche’? ».
Da molto lontano il vento porto’ un filo di voce, come se un dio ubriaco si fosse nascosto nella lecceta di Sas Nastulas:
«Perche’ dopo tocca a te! ».
Il viso di quel bambino, nel sogno di tzia Mintonia, aveva i lineamenti di Pascale.
«Guardati dal bue rosso, Pascale! Mira che e’ ancora in giro dalle nostre parti, in cerca di anime da portarsi via! ».
La nonna di Pascale non era matta o esaurita, vedeva solo nei sogni quello che gli altri non riuscivano a vedere nella realta’, intuiva l’orientamento del destino. Una sera consiglio’ a
un compare del figlio Paulu di non prendere la vittura per andare a mungere:
« Gona’, » gli aveva detto « stanotte ho sognato che volavi come un angelo e avevi le ali insanguinate. Forse e’ meglio che per qualche giorno lasci la vittura a casa e vai all’ovile a piedi ».
Gonariu Ruzzanca le aveva risposto scherzando:
«E aspe che adesso torno a piedi! Mi che le macchine non le hanno inventate per lasciarle ferme, tzia Minto’!».
L’indomani, mentre si recava ad accudire il bestiame con due sacchi di mangime dentro il cofano,
Gonariu non fece neanche due chilometri. Dopo la salita di Loroddai, alla terza curva salto’ la cunetta e finì nel precipizio di Sos Astores. Lo cercarono per sette giorni ma non lo trovarono. L’unica cosa che riuscirono a recuperare fu una sua foto scattata a carnevale, quando si vestiva da angelo nero.
Per tutta quell’estate Pascale non fece altro che vedere buoi rossi e carcasse di cavalli dappertutto. In acqua, in aria, per le strade. Dovunque si andasse, si guardava intorno sospettoso, portava la mano a chiocciola all’orecchio e diceva:
« Inte’? Senti anche tu questo rumore di zoccoli? E’ il bue rosso che arriva per portarmi via! ».
Una mattina andai a cercarlo presto, perche’ avevamo l’appuntamento nell’ovile di Mascrubo’ per la festa della tosatura. La madre mi disse che era uscito prima dell’alba:
«Non ha neanche bevuto il caffellatte! Si e’ messo la taschedda a tracolla ed e’ scappato come una furia! ».
All’ovile di Mascrubo’, Pascale non c’era. La Voce lo aveva chiamato altrove. L’ho trovato io prima di mezzogiorno, appeso al perastro che guardava il recinto con i suoi frutti acerbi. Al centro dello spiazzo coricati di fianco come bambini stremati, giacevano gli stalloni che Dineddu Podargu aveva abbattuto a fucilate nella notte.
Salvatore Niffoi, La leggenda di Redenta Tiria
redento da mario atque ---gallizio
all'epoca pronta a uscire dal riccio
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